Non è la prima volta che mi ritrovo immerso in questo limbo di sensazioni scomode, quasi dolorose, come il paio di scarpe nuove che finiscono per scorticarti le caviglie.

Se anni fa mi aveste chiesto: qual è la licenza supereroistica più dignitosamente rappresentata dal videogioco? Io vi avrei senza dubbio risposto Batman Arkham. Il lavoro compiuto da Rocksteady è stato (ed è tuttora) uno dei migliori mai realizzati nella traduzione da fumetto a pixel; il franchise di Arkham è stato capace di restituire ai videogiocatori l’esperienza batmaniana più vivida di sempre in una trilogia in crescendo.

Ahimè, come dice saggiamente il proverbio, “non tutte le ciambelle escono col buco”, e Suicide Squad: Kill the Justice League ne è la più drammatica rappresentazione.

Dopo l’annuncio della sua natura live service, tuttavia, anche la mia prima reazione fu tiepida, come quella di quasi tutti.. Faticavo non poco a concepire l’idea dietro l’opera: d’altronde come potevano pensare che un game as a service costruito attorno a un third person shooter (si fa per dire), potesse raccogliere l’eredità della serie Arkham? Era logico pretendere dal team un lavoro più vicino al loro stile e a ciò che avevano dimostrato di sapere fare ben e in passato, NdClod). Eppure con Suicide Squad viene tracciata una linea. Uno spartiacque tanto radicale, quanto inaspettato. Un cambio totale di regime, il cui unico denominatore comune è, per forza di cose, l’universo DC.

Arrivati a questo punto, è doverosa una precisazione: non è “solo” lo scollamento con il passato ad aver decretato la cattiva riuscita di questo progetto. Procediamo con ordine.

T.F.X.

La storia, a quanto pare, si ambienta anni dopo le vicende finali di Arkham Knight – rendendo Suicide Squad de facto canon – e vede la Task Force X intenda a liberare Metropolis (e di conseguenza il mondo tutto) dalla morsa dell’essere più intelligente dell’universo: Braniac. Come se la minaccia della super-mente aliena non fosse già abbastanza, a peggiorare drasticamente la vicenda ci penserà la Justice League, la blasonata lega di supereroi a cui fanno capo i più marmorei volti dell’universo DC: Superman, Batman, Wonder Woman, Lanterna Verde e ultimo, ma non per importanza, Flash.

Kill the Justice League non a caso: Braniac ha infatti esteso il proprio controllo su tre quarti della lega della giustizia, che si frapporrà costantemente fra noi e la salvezza dell’umanità.

Fin qui nulla di blasfemo, dopotutto la Lega si è opposta a Braniac numerose volte nella storia del colosso editoriale americano, eppure la sensazione che si ha una volta giunti alle battute finali è qualcosa di fastidioso da metabolizzare, alla stregua di uno sbadiglio interrotto. Badiamo bene: non sono state le numerose licenze poetiche che i dev si sono concessi ad aver suscitato in me i fastidi di cui sopra – certo, ignorare completamente il reale funzionamento dell’anello verde non mi ha fatto granché piacere – ma al contrario lo è stato semmai l’intreccio, così come narrazione e game design.

Cominciamo dall’architettura narrativa. A differenza dei vecchi lavori dello studio, in Suicide Squad lo sviluppo narrativo segue un andamento radicalmente differente, preferendo una struttura poco lineare e tutt’altro che centrale. L’impressione è stata, credo non a caso, quella di ritrovarsi in un semplice looter shooter brandizzato DC, privo di mordente narrativo e unicamente focalizzato su di un gameplay che, come vedremo dopo, funziona solo entro certi limiti. Ne consegue un gioco decisamente sterile sul piano drammaturgico, in particolare in quelle sequenze ove sarebbe stato necessario un maggior coinvolgimento emotivo.

Inoltre, l’insieme di gag messe in piedi dalla squadra di reietti risultano piacevoli solo in un primissimo momento, quando i tratti comportamentali e il brio della Squad appaiono ancora poco nitidi al giocatore, soprattutto se quest’ultimo è digiuno dai fumetti. Infatti, superate le prime ore di gioco, eccezion fatta per le cinematiche, cominceremo ad avvertire un senso di déjà-vu proprio nella routine comportamentale della squadra: linee di dialogo reiterate all’infinito, spesso decontestualizzate da ciò che si sta facendo e capaci solo di appiattire il confine che separa il videogioco dal videogiocatore.

Spara, salta e spara ancora!

Se il gioco non brilla di luce propria sul piano narrativo, ci si aspetterebbe una qualche forma di compensazione sul piano ludico. Lasciate che vi dica che da questa prospettiva l’esperienza migliora, e anche tanto, finché, puntuale come una cartella esattoriale, arriva la noia, o meglio dire: la ripetitività.

Quello che vorrebbe chiaramente essere uno shooter in terza persona, più simile a un The Division piuttosto che a un Arkham City, è in realtà molto più vicino a un bullet hell. Ciò che generalmente ho fatto in venti ore (vestendo i panni di King Shark) è stato saltare in alto, tirare qualche colpo melee e sparare… sparare come se non ci fosse un domani.

Amo gli sparatutto, e non mi disturbano quei giochi interamente focalizzati sul gunplay. Un buon gunplay però, per essere ritenuto tale, dovrebbe concedere al giocatore il totale controllo degli spazi e delle bocche da fuoco. E se in prima istanza può sembrare che il gioco risponda proprio a questa filosofia, alla lunga la deviazione è piuttosto sensibile. Senza fraintendimenti: mi sono divertito più di quanto mi aspettassi a macinare le orde di terminauti schierate dal coluniano, il problema tuttavia risiede proprio nel “come”. Il gioco permette di potenziare il proprio arsenale, ma quanto seriamente impatta questo nell’economia di gioco? A mio avviso, poco. Al di là di una scheda di personalizzazione che poco ho compreso (limite mio), ho avuto davvero poca necessità di potenziarmi, anzi, dopo aver rodato una build fatta di sole mitragliatrici pesanti, non ho cambiato approccio fino alla fine. Inoltre, il predominio dello shooting nelle fasi di combattimento fa sì che il melee venga relegato a semplice gesto meccanico, utile solo per massimizzare i danni con le armi da fuoco. Ripensando al celebre free flow combat di Rocksteady mi scende una lacrima salatissima.

Se a questo aggiungiamo un pool di incarichi poco stimolanti nel medio/lungo periodo, il quadro generale non può far altro che peggiorare: missioni di scorta e sabotaggio proposte in varie salse lungo l’intera durata del gioco.

Male, ma non malissimo invece il fronte boss fight. Dovendoci confrontare con la lega di supereroi più importante della storia, era lecito aspettarsi combattimenti cinetici e al cardiopalma. Non è stato così. Vuoi per lo squilibrio delle forze contrapposte, ma ciò che ho vissuto sono state boss fight poco coinvolgenti e generalmente scriptate. Dopotutto come posso quattro (pessimi) elementi che si stanno facendo largo per Metropolis a suon di calibri pesanti opporsi a qualcuno immune ai proiettili? Ecco che subentra l’espediente narrativo – molto spesso inventato o forzatamente inserito – utile per lo svolgimento di una sceneggiatura che scricchiola non appena muove un passo.

Non brutto, ma…

La resa estetica di Suicide Squad: Kill the Justice League, mi duole ammetterlo, è stata sotto le aspettative. Eccezion fatta ancora una volta per le cinematiche, a cui si può riconoscere quantomeno una buona regia, il resto è tutto sommato al di sotto degli standard a cui lo studio britannico ci aveva abituati.

Non amo fare parallelismi, ma è indubbio che fra Arkham Knight e Suicide Squad: Kill the Justice League. c’è stata poca innovazione in termini di know-how tecnico. I modelli della Squad appaiono ben realizzati – ho apprezzato, per esempio, il tentativo (riuscito) di non sessualizzare Harley Queen – così come è ben realizzata la League. Molto validi anche i mob: i terminauti di Braniac sono cangianti e abominevoli, ben definiti proprio in quei tratti utili a esaltarne la mostruosità.

Insoddisfacente è invece il level design. Metropolis si mostra nella sua veste più distopica, essendo di fatto sotto assedio dalle forze di Braniac. Eppure, nonostante l’aura catastrofica, l’ambiente non riesce mai a esaltare né tantomeno si lascia ammirare. Mentre a Gotham era prassi per me posizionare evocativamente la telecamera, in modo da rubare a Batman uno scorcio fotografico, in questa Metropolis il colpo d’occhio è praticamente assente. Gli edifici appaiono simili fra loro (fatte alcune eccezioni) e l’interazione con questi è pressoché nulla. Come sia possibile impoverire in questo modo Metropolis, resta per me un mistero. Un gran peccato.

In definitiva, Suicide Squad: Kill the Justice League è stato, purtroppo, un evidente passo falso; una caduta figlia di imposizioni stilistiche di cui lo studio è responsabile solo entro certi termini. Detto questo, possiamo solo augurarci che Rocksteady torni al più presto ai suoi lavori senza più innaturali imposizioni dall’alto.

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